LUCE nello ZIBALDONE

ZIBALDONE

Lo Zibaldone è una sorta di diario intellettuale in cui il poeta tra l’estate del 1817 e il dicembre del 1832, come scrive Giosuè Carducci che ne curò la prima edizione ( 1898-1900) annota “ un numero grandissimo di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, conversazioni e discussioni, per così dire, del giovane illustre con se stesso su l’animo suo, la sua vita, le circostanze; a proposito delle sue letture e cognizioni; di filosofia, di letteratura, di politica; su l’uomo, su le nazioni, su l’universo”. La parola zibaldone di etimologia incerta, significa “ mescolanza confusa di cose diverse”, o anche “ vivanda preparata con molti ingredienti” ed è usata da leopardi in riferimento alla varietà degli argomenti trattati, senza un criterio organizzativo, annotati giorno per giorno man mano che si affacciavano alla sua mente, in seguito alle sue meditazioni o alle sue letture. Nelle pagine dello Zibaldone, Leopardi elabora la sua “teoria della visione”, che insieme alla “ teoria del piacere” costituiscono la compensazione , l’alternativa ad una realtà vissuta che non è che infelicità e noia.  Ciò che stimola l’immaginazione a costruire una realtà parallela, in cui l’uomo trova l’illusorio appagamento al suo bisogno di infinito, è tutto ciò che è “ vago ed indefinito”, lontano, ignoto. Nelle pagine dello Zibaldone, Leopardi passa minuziosamente in rassegna , in chiave sensistica, tutti gli aspetti della realtà sensibile che, per il loro carattere indefinito, possiedono una grande forza suggestiva. Nel costruire la sua “teoria della visione”, il poeta scrive che è piacevole, per le idee vaghe e indefinite che suscita, la vista impedita da un ostacolo, una siepe, un albero, una finestra “ perché allora in luogo della vista lavora  l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale”; lo stesso effetto hanno un filare d’alberi che si perde  all’orizzonte , un declivio di cui non si riesce a vedere  la fine, una fuga di stanze il gioco della luce lunare  tra gli alberi, sull’acqua, sui tetti delle case. Ed è proprio la luce spesso protagonista dei suoi versi,   soprattutto la luce lunare, ma anche la luce prodotta da qualche lume ,  così come si legge nei primi versi del Canto “ La sera del dì di festa”, dove la luce  lunare illumina il profilo delle montagne e dalle imposte filtra la luce di qualche raro lume.

Giacomo Leopardi - Wikipedia

TEORIA DELLA VISIONE dallo Zibaldone

[1744] Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti ec. ci destino idee indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov'essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce, e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov'ella divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec.ec.; la detta luce veduta in luogo, oggetto ec. dov'ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov'ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia parimente ec. quei luoghi dove la luce si confonde ec.ec colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell'ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce per esempio un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti in somma che per diverse [1745] materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell'ordinario ec. Per lo contrario la vista del sole o della luna in una campagna vasta ed aprica, e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione. Ed è pur piacevole per la ragione assegnata di sopra, la vista di un cielo diversamente sparso di nuvoletti, dove la luce del sole o della luna produca effetti variati, e indistinti, e non ordinari. ec. È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non veder tutto, e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono gli alberi, i filari, i colli, i pergolati, i casolari, [1746]i pagliai, le ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, nè ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima, per l’idea indefinita in estensione, che deriva da tal veduta. Così un cielo senza nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e dell’incertezza prevale a quello dell’apparente infinità, e dell’immensa uniformità. E quindi un cielo variamente sparso di nuvoletti, è forse più piacevole di un cielo affatto puro; e la vista del cielo è forse meno piacevole di quella della terra, e delle campagne ec. perchè meno varia (ed anche meno simile a noi, meno propria di noi, meno appartenente alle cose nostre ec.) Infatti, ponetevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna, o considerando il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra, ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista.

È piacevolissima ancora, per le sopraddette [1747] cagioni la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle, o di persone ec. un moto moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec. che l’animo non possa determinare, nè concepire definitamente e distintamente ec. come quello di una folla, o di un gran numero di formiche, o del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati, e non distinguibili l’uno dall’altro ec. ec. ec. (20. Sett. 1821.)

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