LUCE nel pensiero MEDIEVALE e MODERNO

 FILOSOFIA MEDIEVALE

 TOMMASO D’AQUINO – “ Summa theologiae”- 1265-1273

 

“ Se la luce sia un corpo o una qualità” , da  Summa theologiae, I, q. 67, aa 2-3 

in S. Tommaso d'Aquino, La Somma Teologica, ESD, Bologna, 1996.


La Summa theologiae, di Tommaso d’Aquino è un’opera composta fra 1265 e 1273. È divisa in tre parti e contiene l’esposizione della teologia destinata a chi intraprende lo studio della «sacra doctrina». La trattazione è svolta mediante il metodo della quaestio. La Parte prima tratta di Dio  (Dio come causa agente) – a partire dalla dimostrazione a posteriori della sua esistenza mediante le cinque vie ed affronta 114 questioni. La Parte seconda tratta in primo luogo delle azioni dell’uomo, quindi il ritorno dell’uomo a Dio, che è causa finale, ed affronta 189 questioni . La Parte terza è incentrata sulla cristologia e sul significato del mistero salvifico dell’incarnazione.

Nella prima parte, quella relativa a  Dio e alla creazione, nella questione 67 Tommaso scrive: ” Prima tratteremo dell’opera compiuta  il primo giorno, poi passeremo al secondo giorno e infine al terzo. Sul primo punto si pongono quattro quesiti: 1) Se si posa parlare propriamente di luce negli esseri spirituali; 2) Se la luce materiale sia un corpo; 3) Se sia una qualità; 4) Se fu conveniente la produzione della luce nel primo giorno”, da S. Tommaso d'Aquino, La Somma Teologica, ESD, Bologna, 1996

Se la luce sia un corpo - Summa theologiae, I, q. 67, a. 2

in S. Tommaso d'Aquino, La Somma Teologica, ESD, Bologna, 1996

Rispondo: Non si può ammettere che la luce sia un corpo, e ciò per tre motivi. Primo, per le condizioni [reali] dello spazio. Infatti il luogo occupato da un corpo è distinto da quello occupato da un altro corpo; né è possibile, naturalmente parlando, che due corpi stiano insieme nel medesimo luogo, per quanto diversi essi siano, poiché il contiguo esige una distinzione spaziale.

Secondo, per la natura del moto. Se infatti la luce fosse un corpo, l’illuminazione non sarebbe altro che un suo movimento locale. Ora, nessun movimento locale di un corpo può essere istantaneo, dovendo l’oggetto che si muove da un luogo a un altro raggiungere la zona intermedia prima del limite estremo del suo percorso. Invece l’illuminazione si produce istantaneamente. — Né si può opporre che essa avviene in una frazione impercettibile di tempo. Perché se il tempo può sfuggirci in un piccolo spazio, non lo può in una grande estensione, p. es. dall’oriente all’occidente. Ora, noi osserviamo che non appena il sole è su un punto dell’orizzonte a oriente, subito si illumina tutto l’emisfero sino al punto opposto. — Si deve inoltre considerare che ogni corpo possiede un movimento naturale ben determinato: invece il movimento dell’illuminazione si svolge in tutte le direzioni, in senso tanto circolare quanto retto. È quindi evidente che l’illuminazione non è il moto locale di un corpo.

Terzo, la medesima conclusione risulta dallo studio della generazione e della decomposizione dei corpi. Se infatti la luce fosse una sostanza materiale, quando l’aria si rabbuia per l’assenza del corpo illuminante la sostanza corporea della luce dovrebbe decomporsi, e la sua materia ricevere un’altra forma. Il che non appare, a meno che qualcuno non dica che anche le tenebre sono un corpo. — E nemmeno appare che da questa materia ogni giorno sia generato un corpo tanto grande da riempire mezzo emisfero. — Sarebbe poi addirittura ridicolo affermare che una massa così grande viene a decomporsi per la sola assenza della sorgente luminosa. — Se tuttavia qualcuno asserisse che non si decompone, ma che viene e va insieme con il sole, che cosa risponderà all’osservazione che tutta la camera si oscura quando un corpo estraneo viene messo intorno alla candela? E non si dica che tutta la luce si addensa intorno alla candela: infatti qui non vediamo una luce più intensa di prima. — Concludendo, poiché tutto ciò contrasta non solo con la ragione, ma anche con l’esperienza sensibile, affermiamo che la luce non può essere una sostanza materiale.

Se la luce sia una qualità  Summa theologiae, I, q. 67, a. 3.

in S. Tommaso d'Aquino, La Somma Teologica, ESD, Bologna, 1996

Rispondo: Alcuni dissero che la luce ha nell’aria non un essere fisico, come il colore nella parete, ma intenzionale, come l’immagine del colore nell’aria. — Ciò però non può essere ammesso per due motivi. Primo, perché la luce dà una denominazione all’aria: infatti l’aria diventa con essa attualmente luminosa. Il colore invece non la denomina: infatti non diciamo che l’aria è colorata. Secondo, perché la luce produce il suo effetto nella natura: infatti i raggi del sole riscaldano i corpi. Le entità intenzionali invece non causano mutazioni fisiche. Altri allora dissero che la luce è la forma sostanziale del sole. Ma anche questo appare impossibile per due motivi. Primo, perché nessuna forma sostanziale è per se stessa oggetto dei sensi, essendo le essenze oggetto dell’intelletto, come dice Aristotele [De anima 3, 6]. Ora, la luce cade direttamente sotto il senso della vista. — Secondo, perché è impossibile che la forma sostanziale di un essere diventi forma accidentale di un altro. Infatti è una proprietà della forma sostanziale costituire un essere nella sua specie, e quindi accompagnarlo sempre e in tutti i casi. Ma la luce non è la forma sostanziale dell’aria, altrimenti al suo sparire l’aria si decomporrebbe. Non può dunque essere la forma sostanziale del sole. Diremo allora che, come il calore è una qualità attiva derivante dalla forma sostanziale del fuoco, così la luce è una qualità attiva derivante dalla forma sostanziale del sole e di qualsiasi altro corpo che risplende di luce propria, se ne esiste qualcuno. E abbiamo un segno di ciò nel fatto che i raggi delle varie stelle producono effetti diversi secondo la diversa natura dei corpi.

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FILOSOFIA MEDIEVALE                           

ISAAC NEWTON : “ Nuova teoria sulla luce e i colori”  1672

 

Con gli studi di Isaac Newton ( 1642-1727), la rivoluzione scientifica iniziata da Copernico e Galilei perviene al suo compimento, sia sul piano del metodo, sia su quello dei contenuti, giungendo a delineare quell’immagine dell’universo che è divenuta familiare all’uomo moderno. Newton, ha un’importanza basilare non solo in ambito strettamente scientifico, ma anche sul piano culturale e filosofico. Alla metodologia di Newton fa riferimento innanzitutto l’empirismo inglese, che elabora un concetto di ragione   che fa capo  all’esperienza, intesa come campo operativo e strumento di verifica delle indagini  intellettuali. Newton è considerato un filosofo, ma anche il  padre della moderna scienza.

Dal 1670 al 1672 si occupò di ottica. Durante questo periodo studiò la rifrazione della luce dimostrando che un prisma può scomporre la luce bianca in uno spettro di colori, e quindi una lente e un secondo prisma possono ricomporre lo spettro in luce bianca. Da questo lavoro concluse che ogni telescopio rifrattore avrebbe sofferto della dispersione della luce in colori, e inventò il telescopio riflettore per aggirare il problema. Nel 1671 la Royal Society lo chiamò per una dimostrazione del suo telescopio riflettore. Il loro interesse lo incoraggiò a pubblicare le note On Colours (Sui colori) che più tardi arricchì nel suo lavoro Opticks (Ottica). Quando Robert Hooke criticò alcune delle sue idee, Newton ne fu così offeso che si ritirò dal dibattito pubblico e i due rimasero nemici fino alla morte di Hooke.

Nel febbraio 1672 Isaac Newton diede alle stampe un saggio rivoluzionario: “ Nuova teoria sulla luce e i colori”  È la prima esposizione pubblica della teoria del colore: la luce solare non è, come tramandato fino ad allora da una tradizione consolidata, semplice, omogenea e pura, ma una mescolanza eterogenea di tutti i colori dello spettro. Una concezione che suscita immediatamente clamore e critiche tali da costringere Newton a ritirarsi per un lungo periodo dalla scena pubblica.

Signore,

per adempiere alla mia precedente promessa, vi informerò senza altre cerimonie che all’inizio dell’anno 1666 (...) mi procurai un prisma triangolare di vetro per fare con esso esperimenti sui famosi fenomeni dei colori. E avendo in ordine a ciò oscurata la mia camera e praticato un piccolo foro nell’imposta della mia finestra, per consentire il passaggio della luce del sole in quantità conveniente, collocai il prisma all’ingresso di esso in modo che così potesse essere rifratta sulla parete opposta. Vedere i vividi e intensi colori prodotti, fu da principio uno svago molto piacevole; ma applicatomi dopo un momento ad esaminarli in maniera più circostanziata, rimasi sorpreso di vederli disposti secondo una forma oblunga mentre, per le note leggi di rifrazione, mi attendevo che essa fosse circolare. Erano delimitati sui lati da linee rette, ma alle estremità l’indebolimento della luce era così graduale da rendere difficile determinare correttamente quale ne fosse la figura; tuttavia essi sembravano disposti a semicerchio. La lunghezza con la larghezza di questo spettro colorato, la trovai di circa cinque volte più grande: un divario così fuori dall’ordinario che stimolò in me una curiosità straordinaria di ricercare da che cosa potesse derivare. Non riuscivo a credere che i diversi spessori del vetro, oppure la vicinanza con l’ombra o il buio, potessero avere sulla luce un’influenza tale da produrre un simile effetto; ritenni tuttavia non inopportuno esaminare in primo luogo queste circostanze e verificare in tal modo che cosa sarebbe accaduto se avessi trasmesso la luce attraverso parti di vetro di diverso spessore, o attraverso fori di diversa grandezza praticati nella finestra, oppure se avessi collocato il prisma all’esterno, così che la luce dovesse passare attraverso esso, e venire rifratta prima d’essere delimitata dal foro. Ma trovai che nessuna di quelle circostanze era importante. Il comportamento dei colori era il medesimo in tutti questi casi, allora che questi colori dovessero essere tanto dilatati o in conseguenza di un qualsiasi difetto nella regolarità del vetro, o in conseguenza di un’altra contingente irregolarità. Per provare ciò presi un altro prisma simile al primo e lo collocai in modo tale che la luce, passando per entrambi, potesse venire rifratta in direzioni opposte e quindi, per effetto del secondo prisma, rinviata lungo quella direzione dalla quale il primo l’aveva deviata. Pensavo, infatti, che così procedendo gli effetti regolari del primo prisma sarebbero stati annullati dal secondo prisma, quelli irregolari invece aumentati grandemente per effetto della molteplicità delle rifrazioni. Il risultato fu che la luce, diffusa per effetto del primo prisma in forma oblunga, fu ricondotta dal secondo ad una forma anulare con altrettanta regolarità di quando la luce non passava attraverso essi. Sicché, qualunque fosse la causa di quell’allungamento, esso non era dovuto ad alcuna irregolarità contingente. (...) dicevo, per tornare all’argomento, che la luce non è similare o omogenea ma che consta di raggi difformi, alcuni dei quali sono più rifrangibili di altri: in modo che fra quelli che sono diversamente incidenti sul medesimo mezzo, alcuni saranno più rifratti di altri, e ciò non per effetto di una qualche virtù della lente né per effetto di un’altra causa esterna, ma a causa di una predisposizione in forza della quale ciascun raggio particolare deve subire un particolare grado di rifrazione. Vengo adesso ad informarvi di un’altra, più notevole, difformità dei raggi, nella quale è coinvolta l’origine dei colori. Un naturalista non si aspetterebbe di vedere la scienza di quelli diventare matematica, e tuttavia oso affermare che in essa vi è altrettanta certezza che in qualsiasi altra parte dell’ottica. Ciò che dirò al riguardo non è un’ipotesi bensì una conseguenza estremamente rigida, non congetturata con la semplice inferenza: è così perché non è diversamente, oppure perché essa soddisfa tutti i fenomeni (modulo universale dei filosofi), ma ricavata con la mediazione di esperimenti che concludono direttamente e senza ombra di dubbio. Continuare la narrazione storica di questi esperimenti comporterebbe un discorso troppo tedioso e confuso, formulerò piuttosto, in primo luogo, la dottrina, e dopo, al fine dell’esame di essa, vi darò uno o due esempi degli esperimenti, come saggio dei restanti.  

Tratto da “ Scritti sulla luce e i colori” di Isaac Newton a cura di Franco Giudice, BUR Rizzoli Classici



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